Ammettiamolo, qui su Vertiger ci sono delle fighe da paura. Volteggiano su pali, vanno in moto, cucinano cose belle e sane mantenendo un sorriso celestiale. E poi ci sono io, che annovero tra le mie attività sportive la caccia al saldo, il training autogeno in ufficio (“se ti ho detto che non è possibile, NON È POSSIBILE!”) e la capacità di mangiare direttamente il tacchino arrosto dalla confezione senza passare dal piatto. Eh, sono talenti, non invidiatemi.
Il pretesto che mi tiene qui è il mio fedele, ma chiaramente non ricambiato, attaccamento alla corsa: i miei 50 km settimanali (molto meno ora, che Anto’ fa caldo, ma soprattutto ho la malattia del sonno) mi permettono di conservare un derrière decoroso senza digiunare come Mosè sul Sinai, ma dubito che la mia capacità di spostarmi da un punto A ad un punto B con scarpe dal costo immorale (clicca qui per un riepilogo) faccia di me una vera atleta. Poi ho letto questo status di Valentina su Facebook (così carina da taggare anche me, l’antisport) e mi sono fatta un paio di domande.
Controllo io ogni parte del mio corpo alla perfezione?
No, anzi, vado in crisi se ho in mano più di tre cose.
La mia attività sportiva procaccia negli altri un’ammirata sorpresa, una raffica di “Dai, dimmi di più!”, scatena emulazione incontrollata? In realtà mi dicono spesso “Ma come te ne tiene?”, ma non credo sia la stessa cosa.
Tuttavia oggi voglio spiegare perché sono qui, perché sento di poter dire che lo sport mi ha cambiato la vita.
Fact 1: Non sono mai stata una persona sportiva. Ora ci provo.
A parte la ginnastica correttiva in tenerissima età, non ho mai frequentato palestre o luoghi adibiti all’esercizio fisico: d’altronde i miei penosi exploit in educazione fisica erano compensati dalle eccellenti pagelle di fine anno. In realtà avrei tanto voluto canalizzare quell’adrenalina che mi faceva camminare saltellando, che mi faceva arrivare in ogni luogo di corsa, che mi faceva passare lunghi pomeriggi a casa a far la ruota, da sola: tuttavia mi sentivo come se non fosse “arte mia”. Non ero agile, non saltavo in alto e soprattutto mi sentivo un po’ scema a fare quelle cose con un pubblico. Negli anni ho un po’ maturato l’idea che quella storia della mens sana in corpore sana l’avessero inventata i proprietari di Technogym, e che la mia mente brillante (sì, questo è un post autoincensatorio) avrebbe abbondantemente arginato i limiti di un corpo goffo e mingherlino. Questo è continuato per diversi anni, quando fu proprio un corpo a beffarmi: nello specifico quello di madre, quando le fu diagnosticata la Distrofia di Steinert. Mia madre, e le sue lunghe e bellissime gambe, dapprima invidiate da tutto il quartiere e ad un certo punto incapaci di reggerla. Quelle mani, quelle braccia che si lasciavano scappare di tutto.
Su come sono cresciuta, da quei cinque anni in cui mia madre cadde per la prima volta davanti ai miei occhi lasciando a terra una scia di sangue, all’estate della mia seconda media, quando il medico mi prese per le spalle e mi disse “Non avete capito quanto seria sia la situazione!”, alle volte in cui avrei voluto averla vicina a me e non ho potuto, prima perché troppo instabile per seguirmi poi perché materialmente non più presente su questa terra, preferirei non indugiare: diciamo che non è stata una passeggiata di salute, ma che tutto sommato sono stata fortunata ad averla con me per tutti questi anni e ad aver condiviso con lei i miei studi, il mio primo lavoro serio, le mie piccole soddisfazioni di ventenne.
Se dovessi tirar fuori una morale da questa esperienza, non unica nel suo genere ma senz’altro significativa per la mia crescita personale, potrei dire che quando parliamo delle nostre esperienze definendole come un “bagaglio”, perdiamo un po’ il senso di quello che abbiamo vissuto. La metafora del viaggio calza assai poco alle scelte, strategiche e cruciali, che ogni giorno siamo chiamati a fare: non scegliamo se andare in Croazia o in Sardegna, ma con chi passiamo la nostra vita, o se e come vogliamo curarci. Facciamo scommesse, investimenti: è una sorta di grande City, dove ti muovi senza capirci nulla e neppure una graziosa bombetta.
Nel caso specifico, mia madre aveva investito nei propri muscoli lo stretto necessario, ed ha perso tutto, senza avere mai il tempo di fare un viaggio all’estero, di prendere la patente, di imparare a nuotare. Negli anni in cui l’ho vista consumarsi a ritmo sempre più accelerato, mi sono chiesta per quanto tempo io avrei potuto contare sul mio arsenale fisico, e mi sono risposta “non abbastanza”. Avendo già preso la patente e lavorando troppe ore al giorno per fare il giro del mondo mi sono detta “imparo a nuotare”. A venticinque anni. Ero ancora nella vasca dei piccoli in quel dicembre così piovoso in cui mia madre ci salutò, e fu proprio la piscina il primo posto dove tornai quando il caos del lutto si calmò. Quel dorso serale, che affrontai senza aver condiviso con nessuno la mia perdita, mi rasserenò davvero. Pensai “mamma avrebbe adorato questa sensazione”. Due mesi dopo andai nella vasca degli adulti, ma questa è un’altra storia.
La prima lezione che mi ha lasciato lo sport è questa: non possiamo sapere quanto tempo avremo, ma è comunque troppo poco per non mettersi in gioco
E, scusatemi, farsi ridere dietro in piscina da dei seienni mi sembra un atto abbastanza coraggioso. Soprattutto se per anni hai evitato di farti vedere mentre giochi a pallavolo perché tanto “non sono capace”.
Fact 2: Tendenzialmente sono un tipo malinconico, per non dire una Drama Queen. Ma a tutto c’è un limite.
Vorrei poter affermare che ho la lacrima facile, ma in realtà sciogliersi in un pianto dolce e struggente sarebbe decisamente meglio delle lunghe, lunghissime fasi di Luna Nera che caratterizzano la mia persona e snervano sorelle, amici e fidanzati. Mi conosco, sono così da anni: più rompiscatole che effettivamente dannosa, certo non mi godo la vita al 100%, ma non faccio neppure danni.
Quella fase di iperattività febbrile che mi aveva preso all’inizio del 2012 quindi non solo era piacevole, ma giungeva proprio a fagiolo: la mia famiglia stava attraversando un periodo molto particolare, ed ero la sola a poter gestire una serie di situazioni che richiedevano la disponibilità di una macchina, un po’ di tempo libero e soprattutto nervi saldi. “Io, io, sono io!” diceva una vocina dentro di me che non ero abituata ad ascoltare: la vocina di una che sentiva di avere tutto sotto controllo. Nelle poche ore in cui non lavoravo e non correvo dietro ai mulini a vento della burocrazia portavo avanti il mio tirocinio presso un Centro per l’Autismo e cuocevo crostate piene d’amore per il mio ragazzo; proseguivo le mie lezioni di nuoto ed avevo perso quei due/tre chiletti che mi facevano sentire un po’ appesantita. Visto che non avevo niente da fare, perché non migliorare la mia rana subacquea, e cominciare a correre per prendere un po’ di fiato? E quindi, sveglia alle 5 per poter correre tutte le mattine almeno un’ora.
Questo è il nascere di una grande passione, che con il tempo mi ha fatto abbandonare il nuoto, ma anche la spia di qualcosa che si stava rompendo.
La verità, ragazzi miei, è che non avevo proprio niente sotto controllo, e che stavo per entrare in una delle fasi depressive più profonde della mia vita. La mia testa ci aveva provato ad ingannarmi, a dire che tutto stava andando bene, che ero forte, che ero in gamba e via dicendo. Ero spietatamente infelice, e il mio corpo me lo stava urlando. Ero pur sempre una ragazzona fresca e tosta, ed il tracollo non fu immediato: fu lento, ma inesorabile. Tanto più la mia mente correva famelica da un progetto all’altro, tanto meno sentivo il bisogno di mangiare, di bere, di riposarmi: dormivo meno di due ore a notte, in pochissime settimane persi quasi 10 chili. Non mi sentivo stanca, mi sentivo stranamente viva. La corsa completò quel processo di prosciugamento che non avevo avviato consapevolmente, ma di fronte al quale mi ritrovai a dire “Chissenefrega!”, continuando a fare esattamente quello che facevo prima. Del mio corpo non me ne fregava nulla, davvero: volevo solo non pensare. Se all’inizio il controllo assoluto (sul cibo, sul lavoro, sullo sport) leniva la mia ansia interiore, la constatazione che in realtà stavo solo cercando di scomparire senza lasciare traccia – una consapevolezza che ho acquisito solo dopo mesi – mi fece andare in mille pezzi. Persi davvero il controllo, o almeno a me sembrò così: quelle che per il resto del mondo erano insignificanti defaillance – quando qualcuno notava qualcosa, perché in realtà per gli altri era tutto ok – divennero per me prova tangibile del mio fallimento, e i segni che la malnutrizione e lo stress avevano inflitto sul mio corpo provarono una volta per tutte la mia incapacità di badare a me stessa. Sarebbe bastato urtarmi piano piano per rompermi in mille pezzi.
Un giorno di due anni fa, dopo l’ennesima notte insonne, esco e sono in pigiama: non mi importa, voglio dei biscotti e li avrò. Metto tutta la mia determinazione per arrivare alla macchina, visto e considerato che le gambe non mi reggono, e recarmi al supermercato: salgo a casa, prendo l’ansiolitico che mi ha prescritto il dottore e mi appoggio sul divano. Mi sveglio diverse ore dopo, circondata dagli infermieri del pronto soccorso: in un momento di coscienza, avevo chiamato in ufficio dicendo di non stare bene, e la mia incapacità di articolare le parole aveva seriamente allarmato il mio responsabile. Scoprii diverse settimane dopo di aver avuto un attacco ischemico transitorio, che aveva trovato terreno fertile in un corpo così provato, ma non abbastanza da farmi male per davvero. “Sei una ragazza forte, allenata, piena di energia: un’altra persona non ne sarebbe uscita così bene” mi disse il medico che vide i miei referti.
Vorrei dire che è stato quello il momento della consapevolezza, ma è stato solo il punto più basso della mia depressione: di tutta questa storia, infatti, quello che mi ha sempre colpito di più sono il fatto che fossi uscita in pigiama ed il senso di colpa atavico che mi ha spinto ad avvertire il mio capo che avrei fatto tardi, benché i miei vasi sanguigni stessero chiaramente facendo l’aola nella testa. L’insight è venuto dopo, piano piano, con tanta terapia e obbligandomi ad una disciplina “sana”. A non saltare i pasti. Ad andare a dormire al massimo a mezzanotte. A reintrodurre la corsa piano piano, non più come un’ossessione ma come un piacevole momento di vacanza dai miei pensieri.
Oggi non sono ancora perfettamente guarita, ma posso dire con orgoglio di aver fatto passi da gigante. Le rughette attorno ai miei occhi, eredità di un dimagrimento troppo rapido ed incontrollato, stanno sempre lì a ricordarmi che non sono così furba. Ho apportato tanti cambiamenti nella mia vita, ed a volte mi gira un po’ la testa a pensarci: poi mi ricordo che due anni fa ero in stato di incoscienza su un divano incapace di spiegare ai paramedici perché fossi lì, e penso che posso solo migliorare. Negli anni passati, la corsa mi è servita a non pensare, e quando mi è stata sconsigliata ho pianto lacrime amare: quando sono ritornata così in forma da poter ricominciare, mi sono resa conto con gioia che non era così importante, che nel frattempo avevo trovato tanti modi diversi per gratificarmi. Tornare ad allenarmi quindi per me è stata una scelta consapevole: quella di star bene, divertirmi e tenermi in forma. Oggi corro in gruppo, cosa che qualche anno fa sarebbe stata inconcepibile (“chiacchierare, perdere tempo? Giammai!), e che oggi mi ha fatto riscoprire una dimensione sociale dello sport che mai avrei immaginato.
In conclusione?
Continuo ad essere una pippa, sono lenta come la morte e ho la cellulite. Non ho il culo da brasiliana né vincerò mai qualcosa come podista. Nuoto decorosamente, ma di tanto in tanto mi faccio delle gran bevute d’acqua e mi stanco ogni tre bracciate. La mia principale attività sportiva è ancora stare otto ore al giorno davanti al PC. Cosa è cambiato, quindi?
Posso affermare con certezza di non avere un corpo da pantofolaia, e che tutto sommato l’aver mosso le chiappe per tutti questi anni mi abbia molto aiutato in questo: il beneficio più importante, tuttavia, è nella mia testa.
Lo sport mi ha insegnato un nuovo modo di volermi bene: il modo dell’abbastanza.
Sentire il proprio corpo che acquisisce resistenza e potenza è una sensazione meravigliosa, di cui difficilmente si acquisisce consapevolezza senza aver praticato mai attività sportiva. Oggi tuttavia so quando è abbastanza: quando smettere di mangiare schifezze, quando è il momento di fare un po’ di addominali, quando è il necessario staccare la sveglia e dormire un’altra cavolo di ora che qua ok è bello correre, ma la vita già è difficile con otto ore di sonno a notte. Questa “confidenza” con il mio corpo ora la porto con me anche nella vita di tutti i giorni: guardo sempre in avanti, ansiosa di nuove avventure ma con la manina ben stretta a quello che già c’è, affamata di vita ma grata del mio passato, anche quando mi vengono i miei momenti di luna nera. E quando mi trovo a dover rallentare un po’ la mia corsa e sento l’ansia salire mi dico “In fondo i chilometri nelle gambe li ho, devo solo recuperare l’allenamento” e già mi sento molto meglio.
Ps: Grazie per essere arrivati fino in fondo, VVB.