Dal 26 novembre 2017 sono una maratoneta.
Un balzo in avanti difficile da spiegare per chi non corre, o ha appena iniziato, ma che per chi ha fatto della corsa il proprio sport elettivo è, all’incirca, l’equivalente del primo bacio o del primo contratto di lavoro.
Ma andiamo con ordine, sperando di non diventare una di quelle che non fa altro che parlare della propria maratona. Piuttosto cercherò di spiegarvi come una persona assolutamente ordinaria come me sia riuscita a concludere, peraltro in maniera dignitosissima, “la regina delle gare” e come, con un po’ di impegno, tutti possano farcela.
Ammetto di aver maturato l’idea della maratona solo a marzo di quest’anno, quando diversi miei conoscenti hanno partecipato alla maratona di Roma e mi sono detta “Ah, e perché io no?”
Perché non ero abbastanza preparata, ecco perché io no.
Da quel momento è quindi cominciata una folle corsa (è il caso di dirlo), contro il tempo, contro le circostanze che mi impedivano di allenarmi come avrei voluto, ma soprattutto contro quella parte di me che non era proprio convinta di farcela. La parte di me divanata, ma soprattutto la parte di me che era assolutamente certa non sarebbe stata mai in grado di portare avanti quell’impegno.
Ho pensato quindi a qualcosa che mi avrebbe dato ancora più fastidio della fatica o di un post maratona traumatico: il giudizio degli altri se mi fossi tirata indietro. Così ho preso il mio computer e ho scritto esattamente questo su Facebook:
Ormai era fatta, avevo centinaia di testimoni che all’alba del 27 novembre mi avrebbero presentato il conto della mia promessa. E così, ogni volta che dovevo allenarmi ma non avevo voglia, pensavo ai visi dei miei amici di Facebook e indossavo le scarpette.
Anche quando il giorno prima avevo fatto tardi. Anche quando non ero al massimo della forma fisica. Il mio mantra è stato in tutte queste settimane “Tanto non sarò comunque in forma mentre farò la maratona”: non una resa, ma l’evidente constatazione che mai sarei arrivata al livello di fit che era nella mia testa.
Tuttavia sono capitate tante, troppe, occasioni nelle quali non mi era stato possibile uscire: non ultimo un terribile incidente con il dentista che, a meno di dieci giorni dalla maratona, mi ha beccato il trigemino con l’anestesia. Risultato? Tre giorni a letto tra dolori atroci e nausee che mi impedivano di fare qualsiasi cosa, tanto meno correre. Insomma, questa avventura non cominciava proprio alla grande.
Il giorno della maratona : l’abbigliamento e i suggerimenti dell’ultima ora
Giunta a Firenze verso le 17 di sabato 25 novembre ed una temperatura di circa 23 gradi, ero davvero tentata di non dare peso a quello che suggerivano le previsioni meteo per il giorno successivo: calo della temperatura di oltre 15 gradi, acquazzoni e vento polare. Semplicemente, una parte di me non accettava che il proprio debutto alla maratona sarebbe stato accompagnato da condizioni meteorologiche così sfavorevoli; tuttavia, ben consapevole che pioggia, freddo e vento sarebbero stati impossibili da ignorare, ho dato fondo al meglio del mio abbigliamento tecnico.
Maglietta a mezze maniche Six2, una linea pensata per motociclisti che dà grande soddisfazione anche a noi podisti: ho volutamente scelto il modello a maniche corte in quanto in caso di pioggia è meglio essere vestiti il meno possibile (avete presente il fastidio dei vestiti bagnati addosso? Ecco, meglio nulla piuttosto). Per evitare di congelarmi prima del settimo chilometro mi sono procurata dei manicotti (io ho quelli della Brooks, che hanno una banda siliconica a prova di braccia sottili come le mie, e non scivolano mai da dosso), che all’aumentare dei chilometri sarebbero stati calati all’altezza dei polsi. Infine, leggins alla corsara (troppo corti non mi fanno sentire a mio agio) e scarpe neutre, ma molto ben ammortizzate.
Per quanto concerne la colazione, come già detto prima era importante non appesantirmi: circa tre ore prima della partenza mi sono concessa tre fette biscottate con il miele, accompagnate da un integratore di magnesio e potassio che sarebbe servito a prevenire i crampi (un prodotto acquistato in farmacia già in diverse occasioni e sicuramente ben tollerato dal mio organismo).
Basta così? Basta così. Al ventesimo chilometro ho preso questo integratore della Enervit che già avevo provato in allenamento e avevo trovato efficace e pratico: sapendo inoltre che tutti gli integratori in gel elicitano un forte senso di sete, ho cacciato fuori la mia bustina quando avrei saputo che di lì a poco avrei potuto bere.
E…il durante?
Alle otto e ventinove sulla linea di partenza: alle otto e trenta, il diluvio universale. Nel giro di pochissimi minuti eravamo già fradici, e i poncho di plastica forniti dall’organizzazione poco sarebbero riusciti a fare ben poco contro la tempesta che si era scatenata.
Eppure, in ogni singolo momento in cui mi sono guardata attorno, non ho visto che persone felici. Circa ogni 5 chilometri, piccoli gruppi musicali allietavano il nostro cammino; ai lati della strada i cittadini esultavano festanti, (quasi) noncuranti della chiusura alle auto che si sarebbe protratta fino alle 14. Stefania (l’amica che era con me) ed io commentavamo tutto quello che vedevamo: le magliette buffe dei podisti, il verde a perdita d’occhio delle cascine, i tanti (tantissimi!) runner che già dal decimo chilometro si calavano letteralmente le braghe per fronteggiare i bisogni fisiologici, resi ancora più impellenti dal freddo: dopo i primi quindici chilometri, ci siamo rese conto che qualunque dispendio di energia non strettamente necessario sarebbe stato da evitare e quindi abbiamo corso, in silenzio, per altri dieci chilometri.
Appena uscite dal perimetro cittadino, il freddo si fa ancora più intenso: il sorriso è scomparso anche dalle labbra del podista più motivato, la pioggia diventa ancora più violenta, le gambe di quei pochi coraggiosi che hanno osato i pantaloncini sono ormai viola. Io e la mia amica ci separiamo a malincuore, decidendo di mantenere ognuna il passo che le era più congeniale.
Sola, infreddolita e demotivata, sento all’ improvviso questa canzone:
Se c’è Jacko, pensavo, nulla può andare storto. Sorrido, mi scrollo da dosso l’acqua, sento che le mie gambe stanno riprendendo vigore ed energia. Nel frattempo non solo smette di piovere, ma comincia a fare capolino un timido sole invernale. Per me la gara comincia ora. Il cartello che segnala il trentesimo chilometro mi provoca una certa ansia: io non ho mai corso più di trenta chilometri, ora che succederà? Sono al trentaduesimo chilometro, e tutto va bene. Sono al trentaseiesimo, e tutto va bene. Va bene anche quando una salita improvvisa mi fa cedere le ginocchia, anche quando mi rendo conto, dal ridotto numero di persone che vedo ai lati della strada, che è ormai passato tanto tempo dalla partenza e che ci sto mettendo davvero moltissimo a finire. Eppure a ogni punto di ristoro mi salutano con rinnovato entusiasmo, mi chiamano per nome (ce l’ho stampato sul pettorale), mi fanno i complimenti. Trentasette, trentotto, trentanove. Posso farcela. Ormai non mi interessa più che ore sono, nella mia testa sto volando. Mi lascio alle spalle tante persone, quelle che hanno tirato all’ inizio e ora sono stanche. Io mi sento inarrestabile, ho un sorriso sulla faccia che non va via.
Sono una maratoneta, sono una fottuta maratoneta.
“Dai, che è finita!” mi strillano i volontari. Lo dicono dal trentacinquesimo chilometro, ma ora è vero. Sono al quarantesimo chilometro. “No che non è finita” dico a me stessa, mentre mi rendo conto che sto accelerando troppo “Adesso fai per bene questi ultimi chilometri, e non roviniamo tutto”. Quarantuno, quarantadue. Quei 195 metri che chiudono la distanza convenzionale della maratona fanno la differenza. Anche se hai già corso 42 chilometri. Soprattutto se hai già corso 42 chilometri. Ora sono stanca, guardo senza vedere la bellezza di Piazza del Duomo di Firenze ma ehi, ormai ci sono davvero! Punto a superare quelle due persone che mi separano dal traguardo, decido che devo arrivare prima di loro. Così, perché è giusto che lo faccia. Ora faccio zig zag sulla pista, procedo a grandi falcate: taglio il traguardo dopo 4 ore e 57 minuti. Tantissimo, persino per me: potevo fare meglio, ma in quel momento non ci penso neppure. Voglio solo dire “Ho finito”, e per essere sicura sicura che non abbia nient’altro da fare chiedo informazioni ai presenti.
“Ma…ho finito, giusto?”
“Non lo so, vuoi ricominciare daccapo?”.
In attesa della mia amica che ancora deve arrivare, mi fermo per la prima volta dopo quasi cinque ore. Ed è in questo momento, con qualcosa che finalmente mi copre e niente più da fare, che le mie gambe crollano. Non riesco a stare in piedi, devo rannicchiarmi su me stessa. È solo quando anche Stefania taglia il traguardo, quando la abbraccio e le chiedo scusa per averla lasciata, ma anche grazie per aver capito prima di me che era giusto che ci separassimo, che sento davvero di aver vinto. Piangiamo, ci stringiamo, finalmente andiamo a prendere insieme la medaglia.
Campionesse del mondo!
E così, più di un mese dopo, ho raccolto le idee e ho scritto questo pezzo.
A volte mi riguardo a distanza e penso “molto rumore per nulla”, a volte mi sento molto fiera di me per aver fatto qualcosa che fino a pochi mesi fa avrei ritenuto impossibile.
Potevo allenarmi meglio? Certo. Potevo andare più veloce? Sicuro. È evidente che non ho dato il massimo, e che nel tentativo di conservare tutte le energie possibili non ho messo in questa maratona quello di cui ero davvero capace.
Tuttavia, quello che voglio raccontare a te, che magari sei ancora sul divano e non sai se provare a dare una nuova opportunità al tuo corpo, è che anche io, che amo il divano quanto te e lavoro tutto il giorno, sono riuscita a chiudere questa piccola impresa.
Ho detto più volte che “la maratona è per tutti”: ora posso dirti che non è del tutto vero. La maratona è per chi si allena, di chi non cede a stravizi eccessivi: non è riservata agli eroi, ma richiede tempo, serietà, costanza. Soprattutto, la maratona, richiede testa: quando i chilometri sulle te gambe diventano davvero tanti, hai dentro di te tanti pensieri contrastanti. Sei stanca, ma vuoi finire. Sei annoiata, non ce la fai più a stare sulle gambe, vorresti un caffè al bar, fare qualcosa di diverso. Eppure, non molli. Te lo devi proprio dire, “Ce la posso fare”. Per quei 42 km e 150 metri non pensavo ad altro che agli allenamenti saltati, al mal di testa del giorno prima, ai racconti catastrofici di chi mollava la gara per troppa stanchezza. Eppure ero lì, e ringraziavo ogni divinità terrena e ultraterrena per aver avuto quella opportunità. Gesù Bambino, il dio cane Anubi, Pallade Atena. Mi dicevo che non avevo tanto freddo, quando poi era indiscutibile che stavo letteralmente crepando di freddo. Insomma, sono stata brava.
Portare avanti una sfida è uno stimolo per tutti noi: e tu, che sfida ti porrai per il 2018?
Indovina cosa ho scelto io?